mercoledì 22 gennaio 2014
sabato 18 gennaio 2014
Uno scultore per l'architettura: l'esperienza dell'edificio di via Cimarosa 7 a Milano
Uno scultore per l'architettura: l'esperienza
dell'edificio di via Cimarosa 7 a Milano
La prima
mostra milanese di Gino Cosentino alla
Galleria Santa Redegonda nel marzo- aprile del 1946, con il pittore Pippo
Pozzi, ospitava solo tre sculture in gesso e due bassorilievi, con alcuni
disegni. Eppure, a giudicare dall'unica riproduzione d'epoca di un'opera sacra
dal titolo Caduta dalla Croce (1946) decisiva appariva l'impronta dell'ultimo Martini, in una
figurazione plasmata per tocchi veloci, con la consapevolezza del volume e di
una materia corposa, in una sottile ambiguità della forma plastica. Ambiguità
che costringeva allora Beniamino Joppolo a dichiarare una sorta di incertezza di fronte alla esplicita rigidità
delle figure umane. Scriveva, infatti, Joppolo nel testo di presentazione alla
mostra: "Non riusciamo a stabilire fino a qual punto la rigidezza delle
figure scolpite da questo giovane
scultore appartengano alla innocenza e fino a che punto appartengano al
caricaturale, al grottesco. Quelle gambe scheletriche, quelle schiene dritte,
quei volti tesi in una perplessità fissata depongono a favore della seconda
possibilità. I due bastoni della figura curva che aiutano le spalle pericolanti
a sostenersi per non dissolversi nella polvere sono un motivo di carità
cristiana che ci commuove. I bassorilievi bruciano un fatto plastico per
liberarsi in un'atmosfera pittorica entro cui figure e alberi si muovono
romanticamente e sentimentalmente".
Gli
ingredienti della plastica di Cosentino, le costanti del suo approccio alla
scultura apparivano in nuce in quella prima apparizione pubblica: una visione
religiosa dell'uomo e della natura; il referente martiniano nell'ambiguità
delle figure, tra realismo ed espressione trasognata; una predilezione per la
materia come "natura" e infine, una parallela attenzione al bassorilievo
pittorico che rivelava una inclinazione verso la componente architettonica.
Negli anni
Cinquanta la sua produzione è ancora figurativa, spesso ispirata alla scultura
romanica, ai bestiari dei capitelli romanici, in un dialogo costante con
l'antico che non appare mai adesione a
un motivo esteriore o a una moda, ma si traduce in un dialogo di fede con il
creato, in una visione panica del mondo animale. La pietra è la sua materia
privilegiata, come se le "nature", ovvero le figure animali, nascessero
dalla pietra stessa. E' per tale ragione che - prima ancora della successiva
avventura nell'ambito della non figurazione organica, allora particolarmente
diffusa e considerata da Cosentino come uno sviluppo intimo della propria
predilezione per la materia come natura-
l'artista si impegnerà in una significativa collaborazione
architettonica e crederà da quel momento nella scultura per l'architettura come
conseguenza moderna delle più antiche tradizioni. Mi riferisco al primo
episodio a noi noto di collaborazione di Cosentino nell'edificio di Via
Cimarosa 7 a Milano ideato dall'architetto Gian Domenico Belotti (1954-55).
Milano nella primavera -estate del 1954 era stata interessata da episodi sperimentali di "sintesi delle
arti" alla X Triennale di Milano, soprattutto nell'ambito della plastica
parietale: fece scalpore allora una grande parete murale, dal titolo Plastica parietale di Umberto
Milani realizzata per l'ingresso del Palazzo dell'Arte in calcestruzzo e
sabbia, realizzata mediante calchi in
gesso; una concezione di scultura a muro, aderente all'architettura, che fu
subito impiegata dall'architetto Ico Parisi, sempre in quella Triennale, nel
Padiglione Soggiorno ( oggi Biblioteca del Parco), con un bassorilievo in
facciata affidato ancora a Milani.
E se l'architetto
De Carli elogiò in quell'occasione la parete di Milani nella convinzione di una
raggiunta unità nella concezione stessa del "muro", nell'impiego del
calcestruzzo, l'esempio non dovette lasciare indifferente nemmeno l'architetto
Belotti che visitò allora la Triennale. La plastica di Milani, in direzione
informale e segnica, traduceva nella materia la frammentarietà dell'espressionismo astratto trasformando il
muro in una dimensione "autre", secondo la celebre definizione di
Michel Tapié. Dunque Belotti chiamò Cosentino a concepire per il proprio
edificio di via Cimarosa 7 una composizione figurativa costituita da animali,
impiegando la medesima tecnica del bassorilevo in calcestruzzo realizzato con
calchi in gesso, con un'allusione indiretta alla pratica infantile e
mediterranea del calco nella sabbia. L'artista intervenne qui direttamente nei
pilastri portanti dell'ingresso, in una nuova concezione di collaborazione, a
stretto contatto con l'architetto e mediante un intervento previsto
nel corso dell' edificazione dell'architettura, non essendo più chiamato
l'artista a intervenire in uno spazio
già dato né a inventare una forma autonoma slegata dal contesto. Razionalismo
dell'architettura e figurazione
semplice, ingenua, in leggero aggetto sul pilastro liscio di calcestruzzo,
parvero coniugarsi in quell'occasione: qui Cosentino raffigurò sui pilastri
portanti e sulle solette animali di buon auspicio per la casa, amorosi
accoppiamenti, binomi, trinomi, famiglie di animali, come di consueto nella sua
produzione plastica, quindi espresse in libertà i personali motivi che
contemporaneamente realizzava anche in pietra. Senza dubbio l'esperienza della
dimensione architettonica dovette servire allo scultore, che da quel momento,
forse grazie alla mediazione di Belotti, entrò in un circuito di scultura per
l'architettura che avrà, come è noto, molta fortuna, per tutta la vita.
Tra 1954 e 1955, contemporaneamente alla
commissione di Cosentino, Belotti entrò invece
in contatto con i fratelli Pomodoro, che nel 1955 fecero una importante
mostra alla Galleria del Naviglio di Milano: anch'essi, come prima Milani e
Cosentino, operavano mediante l'espediente dei calchi, però in continui passaggi tra positivo e negativo, in
modo da rendere irriconoscibile la matrice originaria. A loro Belotti affidò la
realizzazione di solette e sottobalconi nell'edificio di via Canonica 7 A
(1958), sempre in calcestruzzo e in corso d'opera: un episodio di sintesi delle
arti che servirà da modello per molte architetture milanesi, tra cui anche il
successivo, non distante edificio dell'architetto Ruggero Farina Morez in via
Melzi d'Eril 29 (1965) con interventi analoghi a bassorilievo di Cosentino nelle solette e una scultura
organica nell'atrio. Dopo il 1955
infatti la scultura italiana prenderà, anche grazie agli episodi segnici di
Emilio Scanavino e soprattutto con le sperimentazioni dei fratelli Pomodoro, un
nuovo corso in direzione di un informale segnico, ma anche di una rinnovata
oggettualità. A questi sviluppi Cosentino non aderirà, sviluppando,
coerentemente con le premesse dei primi anni Cinquanta, una non figurazione
organica in cui le coppie di forme e gli elementi complementari saranno
protagonisti di un'affabulazione lirica.
Paolo
Campiglio
venerdì 17 gennaio 2014
lunedì 13 gennaio 2014
Cosentino: Scultura per l’architettura e Opere in luoghi pubblici
Scultura per l’architettura e Opere in luoghi pubblici
1955 - Milano, via Cimarosa 7,
edificio progettato dall'architetto
Belotti:
- pilastri e marcapiani in calcestruzzo decorati con bassorilievi in getto
1962 - Milano, via Gavirate 30,
edificio progettato dagli architetti Mangiarotti e Morassutti:
- bassorilievi sul muro di cinta.
1965 - Milano, via Melzi d’Eril 29,
edificio progettato dall’architetto Ruggero Farina Morez:
- pilastri e pannelli di calcestruzzo con bassorilievi
in getto;
- Affinità, scultura in marmo nell’ingresso
1962/63 Milano, via Cassinis 23,
garage
progettato da Nelly Kraus:
- fregi e bassorilievi in getto
1964 - Milano, P.za Giulio
Cesare 9,
casa d’abitazione progettata dall'architetto Ruggero Farina Morez:
- Affinità, scultura in marmo nell’ingresso
1972 - Milano, Via degli
Appennini:
- Germinazione - scultura in marmo, realizzata in seguito al concorso promosso
dal Comune di Milano, collocata nel giardino.
1975/76 Milano, Rotonda della
Besana:
- Affinità, sculture in marmo nel giardino
1977 - Milano, P.za San Marco:
- Affinità, sculture in marmo, nel giardino.
1980 - Milano, Cimitero Maggiore,
tomba Di Maio:
- Affinità, scultura in bronzo.
1985/86 Milano, Via Salvini,
Istituto ICEI, sede di via Breda 54:
- Pecora e agnello, scultura in marmo.
1986 - Milano, Cimitero
Monumentale, tomba del Dott. Vergani:
- Deposizione, scultura in marmo.
1986 - Milano, via degli
Arcimboldi, 5 - Studio Blei:
- Imbeccata, scultura in marmo nell'ingresso.
1989/90 Milano, via Verdi, Sede centrale
CARIPLO "Cà d'i sass":
- Sogno di una futura madre, scultura in serpentino;
- Maternità, scultura in serpentino.
1989/90 Milano, via La Masa, Politecnico di
Milano Bovisa, Facoltà d'Ingegneria:
- Sogno di un pastore, scultura in tufo
toscano;
- Protezione, scultura in travertino rosso;
- Pecora preistorica, scultura in travertino rosso.
2001 - Milano, Cimitero di Lambrate,
tomba progettata dall’architetto Alessandro Colombo:
- Deposizione, scultura in marmo.
1968 -
Corsico (Milano) -
Edificio di abitazione progettato dall'architetto Giovanni Fragapane:
- fregi e rilievi in getto di Gino Cosentino.
1958 - Baranzate di Bollate
(Milano),
Chiesa “Mater Misericordiae” progettata degli architetti Mangiarotti
e Morassutti:
- Via Crucis, posta lungo il muro di cinta;
- Via Crucis, in ceramica,
all'interno della chiesa a navata unica.
1965 - Monza (Milano),
Autodromo di Monza:
- Fontana in pietra, Affinità, scultura in serpentino.
1982 -
San Donato Milanese (Milano),
Nuova chiesa progetto architettata dall'architetto Boschetti:
- bassorilievi per Altare, Crocifisso, Tabernacolo e Leggio.
1986 - S. Giuliano Milanese (Milano),
Chiesa di San Giuliano Milanese:
- Altare, ambone e pulpito in pietra.
1987 - Milano, quartiere di Baggio,
Chiesa
di San Pier Giuliani progettata dell'arch. Benati:
- bassorilievi per Altare e Fonte
battesimale.
1993 - Vimercate (Milano),
Chiesa del
Beato A. Ferrari:
- Cristo risorto, scultura in bronzo.
1958 - Bergamo, via Carlo Cattaneo,
Villa
Santicoli, progetto architetti Invernizzi;
- decorazioni e bassorilievi in
calcestruzzo realizzato in getto su balconi e marcapiano.
1960 - Castelli Caleppio
(Bergamo),
Banca del Piccolo Credito Bergamasco,progetto architetti
Invernizzi:
- decorazioni e bassorilievi in calcestruzzo realizzati in getto.
1962 -
Bergamo, Galleria XX Settembre Tiraboschi,
progettata dagli architetti Michele
e Sergio Invernizzi:
- fregi e decorazioni.
1962/63
- Bergamo, viale Vittorio Emanuele 26/27,
casa di abitazione progettata dagli
architetti Michele e Sergio Invernizzi:
- fregi su pilastri e marcapiani in calcestruzzo, realizzati in getto.
1970 - Albano
Sant'Alessandro (Bergamo),
Centrale del
Latte, LACTIS, progetto degli architetti Michele e Sergio Invernizzi:
- fregi sul muro nel corridoio della direzione.
1972 -
Zingonia (Bergamo), Edificio d’abitazione:
- bassorilievo
in calcestruzzo realizzato in getto.
1972/3 - Grumello
(Bergamo), Villa Marsetti:
- bassorilievo sui pilastri in calcestruzzo realizzato in getto e su mattoni.
1971 - Somadino (Como), Villa Farina
Morez,
progettata dell’architetto Farina Morez:
- bassorilievo in getto sui pilastri.
1961 -
Brusimpiano (Varese), Villa Dott. Lazzari,
progettata dell’architetto Giovanni Fragapane:
- fregio in getto sulla pensilina.
1981 - Lodi, Piazza di
Lodivecchio:
- Monumento ai Caduti, monumento in cemento nel parco dedicato ai Caduti.
San
Pietro in Cerro (Piacenza) MIM, “Museum in Motion”:
- Affinità, disegno.
1973 - Mantova, Edificio
del Banco dei Pegni:
- bassorilievi in getto.
Sondrio, Museo Civico
- Agguato mortale, scultura in travertino rosso.
1965 -
Trivero (Verbania), Cimitero di Trivero,
progetto architetto Porcinai:
- scultura per la tomba Zegna.
Verbania, Hotel Il Chiostro, via Fratelli Cervi 14:
- sculture
nel giardino del chiostro interno.
1968 - Montecatini (Pistoia), Museo
dell'Accademia:
- Affinità, scultura in marmo.
edificio progettato dall'architetto Belotti:
- pilastri e marcapiani in calcestruzzo decorati con bassorilievi in getto
edificio progettato dagli architetti Mangiarotti e Morassutti:
edificio progettato dall’architetto Ruggero Farina Morez:
garage progettato da Nelly Kraus:
casa d’abitazione progettata dall'architetto Ruggero Farina Morez:
- Affinità, scultura in marmo nell’ingresso
- Germinazione - scultura in marmo, realizzata in seguito al concorso promosso dal Comune di Milano, collocata nel giardino.
- Affinità, sculture in marmo nel giardino
- Affinità, sculture in marmo, nel giardino.
- Affinità, scultura in bronzo.
- Pecora e agnello, scultura in marmo.
- Deposizione, scultura in marmo.
- Imbeccata, scultura in marmo nell'ingresso.
- Sogno di una futura madre, scultura in serpentino;
- Maternità, scultura in serpentino.
- Protezione, scultura in travertino rosso;
- Pecora preistorica, scultura in travertino rosso.
tomba progettata dall’architetto Alessandro Colombo:
- Deposizione, scultura in marmo.
Edificio di abitazione progettato dall'architetto Giovanni Fragapane:
- fregi e rilievi in getto di Gino Cosentino.
Chiesa “Mater Misericordiae” progettata degli architetti Mangiarotti e Morassutti:
- Via Crucis, posta lungo il muro di cinta;
- Fontana in pietra, Affinità, scultura in serpentino.
Nuova chiesa progetto architettata dall'architetto Boschetti:
- bassorilievi per Altare, Crocifisso, Tabernacolo e Leggio.
- Altare, ambone e pulpito in pietra.
Chiesa di San Pier Giuliani progettata dell'arch. Benati:
Chiesa del Beato A. Ferrari:
- Cristo risorto, scultura in bronzo.
Villa Santicoli, progetto architetti Invernizzi;
Banca del Piccolo Credito Bergamasco,progetto architetti Invernizzi:
- decorazioni e bassorilievi in calcestruzzo realizzati in getto.
progettata dagli architetti Michele e Sergio Invernizzi:
- fregi e decorazioni.
casa di abitazione progettata dagli architetti Michele e Sergio Invernizzi:
- fregi su pilastri e marcapiani in calcestruzzo, realizzati in getto.
Centrale del Latte, LACTIS, progetto degli architetti Michele e Sergio Invernizzi:
- fregi sul muro nel corridoio della direzione.
- bassorilievo in calcestruzzo realizzato in getto.
- bassorilievo sui pilastri in calcestruzzo realizzato in getto e su mattoni.
progettata dell’architetto Farina Morez:
- bassorilievo in getto sui pilastri.
progettata dell’architetto Giovanni Fragapane:
- fregio in getto sulla pensilina.
- Monumento ai Caduti, monumento in cemento nel parco dedicato ai Caduti.
- Affinità, disegno.
- bassorilievi in getto.
- Agguato mortale, scultura in travertino rosso.
progetto architetto Porcinai:
- scultura per la tomba Zegna.
- sculture nel giardino del chiostro interno.
- Affinità, scultura in marmo.
sabato 11 gennaio 2014
Gino Cosentino e gli architetti - dicembre 2005
Gino Cosentino e gli architetti - dicembre 2005
POLITECNICO DI MILANO
testimonianze raccolte nel 2005
a cura di: Adele Bugatti Di Maio
per:Facoltà di Architettura Civile
via Durando 10, 20158 Milano
-------------------------------------
A questo incontro sono
presenti Isabella Cosentino, e Pim la compagna di Gino e molti degli architetti
che hanno conosciuto Cosentino restandone affascinati. Molti sono gli
interventi previsti e molti coloro che si riservano di intervenire poi.
Di Cosentino si tenta qui:
di svelare quale sia stato il processo di realizzazione di ogni opera; di
leggere quanto ognuna sia dotata e goda di una sua autonomia intrinseca, legata
in maniera univoca al tema e alla capacità di sperimentare una soluzione
diversa in ogni occasione. Tutti i lavori di Gino Cosentino sono ricerca e
costruzione di un rapporto di equilibrio e una, meno razionale, sperimentazione
del mettere o del levare ma anche del preordinare e del prevedere un risultato.
Per la magia dei risultati
le opere di Cosentino hanno affascinato gli architetti fin da prima che fosse
chiamato dall’arch. Belotti a ‘fare i
gessi’ che costituivano i negativi per via Cimarosa nel 1955 (le casseforme
le avrebbero poi fatte gli operai in cantiere). Questo fascino si è esercitato
anche su studenti e amici di diverse generazioni sino a quelli che sono stati
poi i suoi ultimi allievi.
Le opere di scultura di
Gino collegate all’architettura sono prevalentemente disseminate in Lombardia
nelle costruzioni realizzate con i Belotti, Kraus, Mangiarotti e Morassutti a
Milano; con gli Invernizzi a Bergamo; con Fragapane a Brusimpiano (Va) e a
Corsico (Mi); con Farina Morez a Milano e a Sommaria (Co); e poi a Mantova, a
Lodi, ecc.
E’ percorrendo la via
Crucis che gira attorno alla chiesa di Baranzate, progettata dagli architetti
Mangiarotti e Morassutti, che ci si accorge della indipendenza e nello stesso
tempo del legame tra scultura e architettura - reinvenzione del tema della via
Crucis da un lato e percorso parallelo alla architettura dall’altro.
E’ passando a fianco del
palazzo in via Melzi d’Eril che si è costretti a osservare i bassorilievi e i
volumi ‘sposati strutturalmente’[1]
e indissolubilmente ai pilastri portanti dell’edificio e la scultura che si
intravede nell’atrio attraverso le ampie vetrate del piano terra. Pilastri
portanti che, in getto, sono dotati di un elemento nuovo dato dalla modulazione
plastica della superficie che trae spunto dalla stilizzazione di elementi
naturali e dalla affinità tra due forme.E’ alla Centrale del latte ‘Lactis’di
Bergamo che si può vedere, negli uffici, una fascia ad altorilievo della
lunghezza di circa nove metri realizzata nel cassero assieme alla parete di
cemento. In questo lungo fregio che percorre l’ampio corridoio sono
riconoscibili uomini e animali impegnati nelle attività collegate alla
produzione del latte.
E’ nel Passaggio Giovanni Limonta tra via XX Settembre e
via Tiraboschi, sotto gli edifici a più piani progettati
dagli architetti Invernizzi, che si possono vedere sulle pareti di cemento
della galleria disegni quasi graffiati nel calcestruzzo. Anche questi sono
stati realizzati in getto sul fronte delle vie e si presentano come motivi
geometrici in rilievo sulle bande marcapiano a sottolineatura esterna
delle solette quasi ad esaltare la suddivisione e il ritmo dell’edificio.
‘Bande sottili, quasi greche o festoni, poste a scandire la sequenza dei piani’[2].
Questo incontro e la mostra
vogliono mettere a fuoco una ulteriore rilettura di quella che è stata la
collocazione di Gino Cosentino, scultore e pittore del ‘900, anche attraverso
l’ascolto e la raccolta di testimonianze di come si sono sviluppati rapporti di
collaborazione, di lavoro e di insegnamento. Le immagini della mostra spero poi
che ci aiutino a cogliere la magia di quel che Gino sosteneva: …‘la natura è
solo un pretesto; l’arte è pensiero che si trasmette agli altri senza una
corrispondenza con la realtà sensibile.’…’talvolta, spesso, - diceva - devo
interrompere il lavoro, perché se lo continuassi varierei un equilibrio che è
degno di essere conservato.’[3]
Adele Bugatti
* * * * * * * *
Una
educazione all'architettura
1.
il rapporto tra Cosentino e gli architetti non solo come
rapporto tra due mondi, la scultura e l'architettura, ma come fatto in divenire,
come viaggio nella vita o percorso educativo; come qualcosa che riguarda la
nascita dell'architettura, che confonde e sovrappone nei suoi tratti iniziali i
confini delle due discipline, come un "atto di fondazione"
2.
l'esperienza concreta dell'atto di fondazione, guardando da
ragazzino scolpire gli altorilievi della Via crucis per la chiesa di Baranzate
di Mangiarotti e Morassutti: accorgersi che si possono "fondare" o
costruire, insieme, lo spazio e la narrazione.
(Ragazzino non ancora ovviamente architetto, e quindi
rapporto che induce all'architettura e al dialogo tra le due arti o mestieri)
3.
la parola chiave che unisce i due mondi, sempre ricordata da
Cosentino: la parola "armonia", la quale suggerisce a sua volta una
ricerca. Ricerca che attiene il rapporto tra le cose, cioè l'essenza stessa
dell'atto progettuale
4.
l'armonia, per i grandi architetti della storia, da Leon
Battista Alberti in poi, nello specifico dell'opera, ha sempre avuto a che fare
con quella esperienza che il Vasari chiamava misurare le antichità,
cioè con quella parte del processo formale che costituisce una costante o una
invariante del sentire espressivo. Quella che Cosentino chiamava "armonia
di vuoti e di pieni" era quindi una ricerca, una particolare accezione della
tèchne, la sua propria poetica
5.
come si poteva imparare (dopo avere osservato lo scultore al
lavoro) a cogliere il significato di questi vuoti e questi pieni, nella
materia, nella luce e nella narrazione?
O, meglio per quest'ultima: sia nella narrazione, sia nel gesto ripetuto
che diventa forma, o nascita e scoperta della forma, a partire dalla materia?
Credo che lo si possa prima di tutto cogliere nell'infinita
variazione, nella costante sempre diversa, nel collegare nella memoria la singola
opera con il laboratorio, con la bottega, sempre aperta di nuovi lavori. Quella
che - analogicamente - in architettura Corbusier ha chiamato la ricerca paziente.
Ricerca che sedimenta il tema e la sua aura o dimensione (o
misura). Il rapporto con la natura, quest'ultima, e il rapporto tra due esseri
viventi di qualsiasi "regno" il tema: l'affinità, la maternità,
l'imbeccata, l'abbraccio o anche (per tornare alla Via crucis) il forbire il
viso del Cristo della Maddalena: cioè anche la narrazione
6.
questo rapporto tra la diversità delle cose e la costante
del tema o del gesto, tra la scoperta nella materia ("togliendo il
soverchio") e la storia intera e tutta presente della scultura, anche
vista attraverso l'insegnamento di Arturo Martini, riporta, per la stessa analogia,
alla ricerca continua dei cambiamenti in architettura, che nella storia si
scopre dentro o sotto le classificazioni.
Prima che al Serlio venisse in mente di ridurre a cinque
"ordini" le tante variazioni dell'arte classica del costruire, e
prima che il Vignola li disegnasse così bene nella "Regola" del 1562,
la regola stessa appare in realtà una infinita scoperta nella costante
variazione, sotto diverse luci e in diversi contesti.
Quel nascere del capitello o del balaustro dalla natura e
dal suo sentimento, sempre rimisurato, riconducono in scultura, e qui nella
scultura di Cosentino, all'armonia delle affinità
7.
e, nelle "affinità", a ciò che l'armonia disvela o
a ciò che nasconde (i vuoti e i pieni, la luce e l'ombra).
Questo rapporto (tra la natura e il gesto e il segno
dell'affinità), diventa nella scultura
di Cosentino, col tempo, sempre più intimo o interno; la narrazione si fa
abbreviata e diventa gesto essenziale.
Tanto che, nella costanza della ricerca, l'emergere
prepotente della pittura a un certo punto del percorso espressivo, abbia
proprio questo significato: cioè di chiarificare, di narrare moltiplicando la
luce attraverso lo spettro del colore sempre espressione della materia.
Chiarificare ciò che nella scultura risulta interno, nascosto,
misterioso, pietrificato come l'architettura, conoscibile nella durezza del
segno, fino a che nei secoli non si rinaturalizzi.
Cristoforo Bono
* * * * * * * *
Uno scultore per l'architettura: l'esperienza
dell'edificio di via Cimarosa 7 a Milano
La prima
mostra milanese di Gino Cosentino alla
Galleria Santa Redegonda nel marzo- aprile del 1946, con il pittore Pippo
Pozzi, ospitava solo tre sculture in gesso e due bassorilievi, con alcuni
disegni. Eppure, a giudicare dall'unica riproduzione d'epoca di un'opera sacra
dal titolo Caduta dalla Croce (1946) decisiva appariva l'impronta dell'ultimo Martini, in una
figurazione plasmata per tocchi veloci, con la consapevolezza del volume e di
una materia corposa, in una sottile ambiguità della forma plastica. Ambiguità
che costringeva allora Beniamino Joppolo a dichiarare una sorta di incertezza di fronte alla esplicita rigidità
delle figure umane. Scriveva, infatti, Joppolo nel testo di presentazione alla
mostra: "Non riusciamo a stabilire fino a qual punto la rigidezza delle
figure scolpite da questo giovane
scultore appartengano alla innocenza e fino a che punto appartengano al
caricaturale, al grottesco. Quelle gambe scheletriche, quelle schiene dritte,
quei volti tesi in una perplessità fissata depongono a favore della seconda
possibilità. I due bastoni della figura curva che aiutano le spalle pericolanti
a sostenersi per non dissolversi nella polvere sono un motivo di carità
cristiana che ci commuove. I bassorilievi bruciano un fatto plastico per
liberarsi in un'atmosfera pittorica entro cui figure e alberi si muovono
romanticamente e sentimentalmente".
Gli
ingredienti della plastica di Cosentino, le costanti del suo approccio alla
scultura apparivano in nuce in quella prima apparizione pubblica: una visione
religiosa dell'uomo e della natura; il referente martiniano nell'ambiguità
delle figure, tra realismo ed espressione trasognata; una predilezione per la
materia come "natura" e infine, una parallela attenzione al bassorilievo
pittorico che rivelava una inclinazione verso la componente architettonica.
Negli anni
Cinquanta la sua produzione è ancora figurativa, spesso ispirata alla scultura
romanica, ai bestiari dei capitelli romanici, in un dialogo costante con
l'antico che non appare mai adesione a
un motivo esteriore o a una moda, ma si traduce in un dialogo di fede con il
creato, in una visione panica del mondo animale. La pietra è la sua materia
privilegiata, come se le "nature", ovvero le figure animali, nascessero
dalla pietra stessa. E' per tale ragione che - prima ancora della successiva
avventura nell'ambito della non figurazione organica, allora particolarmente
diffusa e considerata da Cosentino come uno sviluppo intimo della propria
predilezione per la materia come natura-
l'artista si impegnerà in una significativa collaborazione
architettonica e crederà da quel momento nella scultura per l'architettura come
conseguenza moderna delle più antiche tradizioni. Mi riferisco al primo
episodio a noi noto di collaborazione di Cosentino nell'edificio di Via
Cimarosa 7 a Milano ideato dall'architetto Gian Domenico Belotti (1954-55).
Milano nella primavera -estate del 1954 era stata interessata da episodi sperimentali di "sintesi delle
arti" alla X Triennale di Milano, soprattutto nell'ambito della plastica
parietale: fece scalpore allora una grande parete murale, dal titolo Plastica parietale di Umberto
Milani realizzata per l'ingresso del Palazzo dell'Arte in calcestruzzo e
sabbia, realizzata mediante calchi in
gesso; una concezione di scultura a muro, aderente all'architettura, che fu
subito impiegata dall'architetto Ico Parisi, sempre in quella Triennale, nel
Padiglione Soggiorno ( oggi Biblioteca del Parco), con un bassorilievo in
facciata affidato ancora a Milani.
E se l'architetto
De Carli elogiò in quell'occasione la parete di Milani nella convinzione di una
raggiunta unità nella concezione stessa del "muro", nell'impiego del
calcestruzzo, l'esempio non dovette lasciare indifferente nemmeno l'architetto
Belotti che visitò allora la Triennale. La plastica di Milani, in direzione
informale e segnica, traduceva nella materia la frammentarietà dell'espressionismo astratto trasformando il
muro in una dimensione "autre", secondo la celebre definizione di
Michel Tapié. Dunque Belotti chiamò Cosentino a concepire per il proprio
edificio di via Cimarosa 7 una composizione figurativa costituita da animali,
impiegando la medesima tecnica del bassorilevo in calcestruzzo realizzato con
calchi in gesso, con un'allusione indiretta alla pratica infantile e
mediterranea del calco nella sabbia. L'artista intervenne qui direttamente nei
pilastri portanti dell'ingresso, in una nuova concezione di collaborazione, a
stretto contatto con l'architetto e mediante un intervento previsto
nel corso dell' edificazione dell'architettura, non essendo più chiamato
l'artista a intervenire in uno spazio
già dato né a inventare una forma autonoma slegata dal contesto. Razionalismo
dell'architettura e figurazione
semplice, ingenua, in leggero aggetto sul pilastro liscio di calcestruzzo,
parvero coniugarsi in quell'occasione: qui Cosentino raffigurò sui pilastri
portanti e sulle solette animali di buon auspicio per la casa, amorosi
accoppiamenti, binomi, trinomi, famiglie di animali, come di consueto nella sua
produzione plastica, quindi espresse in libertà i personali motivi che
contemporaneamente realizzava anche in pietra. Senza dubbio l'esperienza della
dimensione architettonica dovette servire allo scultore, che da quel momento,
forse grazie alla mediazione di Belotti, entrò in un circuito di scultura per
l'architettura che avrà, come è noto, molta fortuna, per tutta la vita.
Tra 1954 e 1955, contemporaneamente alla
commissione di Cosentino, Belotti entrò invece
in contatto con i fratelli Pomodoro, che nel 1955 fecero una importante
mostra alla Galleria del Naviglio di Milano: anch'essi, come prima Milani e
Cosentino, operavano mediante l'espediente dei calchi, però in continui passaggi tra positivo e negativo, in
modo da rendere irriconoscibile la matrice originaria. A loro Belotti affidò la
realizzazione di solette e sottobalconi nell'edificio di via Canonica 7 A
(1958), sempre in calcestruzzo e in corso d'opera: un episodio di sintesi delle
arti che servirà da modello per molte architetture milanesi, tra cui anche il
successivo, non distante edificio dell'architetto Ruggero Farina Morez in via
Melzi d'Eril 29 (1965) con interventi analoghi a bassorilievo di Cosentino nelle solette e una scultura
organica nell'atrio. Dopo il 1955
infatti la scultura italiana prenderà, anche grazie agli episodi segnici di
Emilio Scanavino e soprattutto con le sperimentazioni dei fratelli Pomodoro, un
nuovo corso in direzione di un informale segnico, ma anche di una rinnovata
oggettualità. A questi sviluppi Cosentino non aderirà, sviluppando,
coerentemente con le premesse dei primi anni Cinquanta, una non figurazione
organica in cui le coppie di forme e gli elementi complementari saranno
protagonisti di un'affabulazione lirica.
Paolo
Campiglio
* * * * * * * *
Gino
Cosentino e le “Lezione di composizione”
“Lezione
di composizione”.
Quando
ho sentito queste parole dette da Gino e visto che ero uno studente di
architettura, mi sono chiesto che cosa volesse dire.
Non
c’è voluto molto tempo prima di avere una risposta. Come spesso accadeva nello
studio era inutile farsi troppe domande: le risposte erano tutte intorno a te
sempre enormemente appaganti e anche
senza punto interrogativo, bastava tenere gli occhi aperti.
“Lezione di composizione” significava sedersi
al tavolo con un foglio bianco in due ed un pennello che ci si passava a turno
per tracciare linee, punti, figure chiuse, figure aperte, macchie…Poche,
pochissime parole dette e molti gesti.
Era
un gioco? Non lo so, ma era sicuramente il più complesso e geniale sistema che
avessi mai visto, forse il più antico, per studiare. Sicuramente quello che mi
è piaciuto di più.
In
quel momento ci si misurava interrogandosi a vicenda sulla direzione, sulla
forma, sulle pause e sul ritmo di un’armonia che ci doveva comprendere tutti e
due. Travalicato il senso di noi stessi e lasciando il mondo visionario dell’arte al singolare, nelle
lezioni di composizione si discuteva d’altro e con altre “parole”, anzi con un
altro sistema di riferimenti che non erano più legati a delle certezze, ma a
delle incertezze che comprendevano me e il mio maestro.
Ed
è stato come aprire una finestra in una stanza che era cieca.
Ho
scoperto che esistono un insieme di regole, certo, dalle quali non si può
prescindere, ma per le quali esistono moltissime interpretazioni.
Ogni
regola è il frutto di un pensiero e di una convenzione che racconta la nostra
storia personale e sociale quindi forzando le regole si trovano nuovi argomenti
e nuovi percorsi o disegni che superano i confini del noto per raggiungere lo
sconosciuto e nuovo.
Le
regole erano forzate dall’intervento di Gino che scomponeva sistematicamente
una progettualità istintiva che cercavo di far aderire allo spazio fisico del
foglio, per addomesticarlo, facendomi perdere ogni possibilità di impormi.
Il
foglio diventava un organismo complesso abitato da situazioni espandibili e
autonome che generavano una visione che, a ripensarci, era simile a quella di
una città.
Piccoli
gruppi di segni e punti e macchie e linee costituivano roccaforti, centri
pulsanti all’interno di un sistema di connessione fatto di virgole e poi un
punto o uno sbaffo o due baffetti che rimbalzano l’occhio all’ingresso di un
paio di linee parallele più grosse, ma poi, no, non erano più parallele perché
sul finire si aprivano per trovare uno spazio…Erano sistemi di risposte a
problemi contingenti con un occhio rivolto ai gesti del passato e l’altro
all’innovazione, alla maturazione della progressiva capacità acquisita di
rispondere ad uno stimolo con coraggio e fantasia.
La
frase “io non cerco, trovo” che Gino ripeteva spesso credo che aderisca
perfettamente a questa esperienza. Indagare le diverse possibilità fino a
comprendere il caso, come fosse il compagno di gioco di una lezione di
composizione, per ascoltarlo e ampliare le soluzioni innovando.Trovare
soluzioni. Il problema dell’arte non mi era mai stato molto chiaro fino a quel
momento. Non mi è stato chiaro il problema fino a quando non ho capito c’erano
delle soluzioni e le soluzioni non erano la fine del problema perché anch’esse
avevano una soluzione.Lavorare sulle possibilità della forma e inseguire l’armonia era il problema. La passione era il
mezzo. L’opera era una delle soluzioni, ma solo una possibile, e l’opera
successiva un’altra soluzione all’opera prima e al problema e così via fino a
quando, per caso (?), un’opera si avvicina molto all’armonia riassumendo le
altre e diventa una buona soluzione a cui trovare una nuova soluzione.
Ancora
oggi e, credo, per sempre, pur utilizzando mezzi espressivi differenti
costruisco e smonto visioni complesse come se stessi ancora facendo queste
fantastiche lezioni di composizione e se finisco gli argomenti provo a farmi
ispirare dal caso. Ma più cerco più trovo e, forse, Gino Cosentino voleva
addolcire la pillola quando dava al caso il merito del duro lavoro, della
passione e della curiosità necessarie per dedicarsi all’Arte.
Francesco
Di Maio
* * * * * * * *
Frammenti del
ginocchio degli architetti
Lo studio di Gino Cosentino, in via Watt a Milano,
è la sua opera più bella (dopo la via Crucis di Baranzate, a dire il vero);
pullulante di figure, quadri e sculture, volumi e ombre, la sera, sotto la luce
dell’impianto elettrico progettato e costruito (a norma?) dall’arch. Alberto
Bonardi col beneplacito di Cosentino. Spazio di molteplici armonie.
Ancora adesso, quando si entra, se sei sensibile
(cioè, se non sei un mostro, umanamente parlando) le sinapsi si autoregolano su
uno stato di euforica beatitudine (non si è ancora scoperto se l’arte
figurativa, la buona arte, attiva la produzione di dopamina, di serotonina o di
altri ormoni e neurotrasmettitori).
…………………………………………………………………………………
L’armonia nella scultura è un mistero. Lo è in
tutte le arti, ma in altre il pensiero razionale, analitico matematico, ha
fatto qualche passo avanti, se non nello spiegare, nel descrivere (i rapporti
armonici, le proporzioni; nella pittura Klee, con le sue teorie su pesi e
misure).
Nella scultura no, sono equazioni troppo complesse.
Gino officiava quel mistero. Lo ha fatto con
tecnica consapevole. Anche questo suona strano: la tecnica per realizzare un
mistero. Non magia, tecnica. Lo ha sempre fatto con gioia infantile. Sembrava
un bambino, per l’intensità della concentrazione nel gioco e la gioia sempre
nuova per il risultato, quando di colpo tutto funzionava.
Penso che questo entrare/uscire in un’infanzia
giocosa sia stato alla radice di un’amicizia spontanea, senza fatica, nata il
primo giorno che ci siamo incontrati, a casa Bono, a Intra, e confermata il
secondo giorno (da allora in poi), un anno dopo, nell’appartamento di via Binda
a Milano, dove era sbarcato nel ’69, cinquant’anni passati, con la Pim, per
ricominciare.
Ho visto lo studio di via Watt nascere e popolarsi
di sculture e quadri. Ho discusso con lui il suo
ritorno alla figurazione, dopo la lunga “iniziazione” dell’astratto. Con
Bonardi e Zaccaria abbiamo curato il catalogo delle opere con cui si mostrava
(ed esponeva), nel suo studio, nuovamente alla città dopo il ritorno.
Io avevo una certa familiarità con l’arte, non nel fare,
ma nel riconoscerla. Familiarità per ragioni, giustamente, di famiglia. Sapevo
già che c’era il mistero.
Il papà (Carlo De Carli) frequentava pittori e
scultori.
Il mondo del novecento milanese, un po’ bohème, e
le avanguardie delle Triennali degli anni ‘50 entravano a casa nostra sotto
forma di persone, quadri, sculture, racconti. C’era in casa anche un
“Cosentino”, un pastore con pecora.
Ricordo una visita a Lucio Fontana, nello studio di
corso Monforte. Avevo diciassette anni, c’erano bellissime modelle (?), e
mucchi di quadri sul pavimento, appoggiati ai muri. Fontana accompagnava il papà, io al seguito,
a vederne solo alcuni, quelli giusti. Non quelli, pur apprezzati dal mercato
per l’originalità del gesto (il buco, il taglio), fatti quasi in serie per un
benessere finalmente raggiunto; ci portava a vedere quelli veri (sempre con
buchi e tagli), che avevano raggiunto perfetta armonia.
Ecco, Gino non aveva quadri e sculture solo per il
mercato, non era capace. Era tutto vero.
Per essere accettato dal mondo, batteva altre
strade. Aveva imparato la chitarra classica.
Alternava Bach con canzoni della tradizione meridionale, sussurrate con
voce appassionata. Aveva studiato chitarra perché gli piaceva e per sedurre.
Complice la Pim, seducevano ospiti affiancando all’arte figurativa quella del
cibo e della musica, con impegno, per amicizia e per campare, insieme. Senza
furbizie. Non era furbo. Era di un’integrità disarmante.
Passava nel suo studio la Milano da bere. Faceva alcune grandi mostre e “gaffes” con i
potenziali galleristi. Scolpiva e dipingeva. Confezionava gioielli. Dipingeva e
scolpiva, pietra e legno.
Abbiamo fatto insieme il grande “tour”, il viaggio
in Francia, alla scoperta di Le Corbusier. Poi in Inghilterra. E lui, scultore, mi ha insegnato a vedere
certi aspetti dell’architettura, soprattutto guardando Le Corbusier: Gino si
sentiva in sintonia.
Ricordo che negli anni ’80 la Triennale ha
organizzato una mostra sull’IBA di Berlino.
C’erano molti bei progetti, tutti rappresentati con
plastici. Dentro quella città in miniatura un’architettura balzava fuori, in
modo stupefacente, ai miei occhi,. Era la casa di Berlin Friedrichstadt di Aldo
Rossi.
La conoscevo già, ma non avevo mai visto il
plastico. Era l’unico che avesse la potenza di una “scultura” alla Arturo
Martini, o alla Cosentino. Lo vedevo con gli occhi di Gino, e lo sapevo.
(a questo punto lui chiederebbe indietro i suoi
occhi).
………………………………………………………………………………………
Ginocchio è un nomignolo che gli ha dato Mario
Fosso. Lui lo accettava un po’ stupito. Come fosse insieme Geppetto e
Pinocchio, l’artefice e la favola.
………………………………………………………………………………………
Col passare degli anni aveva accentuato,
quell’incedere con le spalle quadre, parallelepipedo rettangolo un po’ oscillante,
quasi un Totò, meridionale squadrato come lui, con il naso a fendere l’aria
(tali nasu, tali fusu) e gli occhi vispi pieni di certezze e smarrimenti.
………………………………………………………………………………………
Resta la sua scultura; restano i suoi personaggi, cui
sono particolarmente affezionato: il filosofo, il sassofonista, la ballerina,
il’trombonista, la donna che legge, l’annunciatore; poi gli animali, gli alberi
grassi del meridione, le astratte affinità.
La scultura di Gino non è “evento”, è eterna armonia
di volumi. Lui non si occupava di
oggetti solitari, amava le relazioni e i rapporti (in genere a due; su questo
si sarebbe ironizzato, seduti sulla panca del suo studio, le spalle rivolte
verso il tavolo).
Cosentino in qualche modo appartiene alla nostra
famiglia (nostra di chi?), così come la intendeva Aldo Rossi: famiglia
culturale. Non è un parente lontano. Il suo insegnamento, per chi fa il
mestiere di architetto, non è una scultura/decorazione appiccicata a un
edificio. Il suo insegnamento è l’armonia di volumi e spazi, che riguarda il
suo mestiere, come il nostro. È parte della tradizione di alcuni (molti) di
noi. È una tradizione diversa da quella del design degli oggetti e del lavoro
sulla pelle dell’edificio.
Ho letto di recente un bell’articolo di Renzo Piano
sulle periferie. Pubblicato da “la Repubblica”. Parla dell’architettura come
creazione di un ambiente ospitale. Se la prende con i teorici dell’architettura
come scultura.
In parte ha ragione. Ma io penso che si riferisse a
chi chiama scultura un grattacielo storto.
Perché il fare armonia con volumi e spazi non è
fuori dal mestiere, è parte integrante del mestiere.
……………………………………………………………………………………
Concludo con due immagini: lo donna che legge, che
sarebbe poi la PIM, nella BEIC, e la ballerina sul Partenone.
Marcello De Carli
* * * * * * * *
L'apprendistato della scultura
La conoscenza di Gino Cosentino ha coinciso nel
periodo successivo alla laurea in architettura, con la ricerca di un modo
definito ed appropriato di apprendere la regola del fare artistico. dedicandosi
ad una attività priva di apparente utilità quale appare ai più la scultura. E
ciò in contrasto o per meglio dire a compensazione del clima molto
intellettuale, e per molti versi
astratto della Facoltà di architettura di quegli anni alla quale mi dedicavo in
modo prevalente ed esclusivo.
Si è trattato di una forma di iniziazione attuata
attraverso il metodo più tradizionale e diretto dell'esecuzione sotto la sua
guida di piccoli mobili, piccole sculture in legno ed un grande gesso,
capace tuttavia di fissare alcune
direttrici del fare artistico rivelatesi
preziose nell'instaurare un rapporto fecondo e veritiero con le opere d'arte in
generale in primo luogo di scultura ma anche pittoriche ed alla fine anche
architettoniche.
La collaborazione si sarebbe spinta poi fino
all'allestimento di una sua mostra pittorica al collegio Ghislieri di Pavia e
all'aiuto prestato per l'inaugurazione di una sua grande scultura in marmo di
Carrara presso una scuola pubblica del Gallaratese.
La frequentazione dello studio di Gino Cosentino,
costituiva di per se uno stimolo in questa direzione. Andarlo a trovare
soddisfaceva il bisogno intimo (e credo reciproco) di vedere le ultime opere e
commentarle insieme spesso con battute scherzose rivelatrici di uno stato
d'animo aperto alle intrusioni del neofita. La visita si rivelava una fonte di
riflessioni successivamente capaci di
suscitare il desiderio di disegnare o realizzare altri oggetti e sculture e
ritornare in ogni caso nella sfera poetica dell'arte e quindi continuare il
colloquio con lui.
Lo studio, oggi affollato di opere in pietra
appartenenti alla stagione più matura e poeticamente ricca dell'attività di
Cosentino rappresentava allora (anni 70)
un accogliente punto d'incontro, un territorio neutrale nel quale
ritrovarsi e ritrovare amici e conoscenti, con lo scopo dichiarato di
approfittare della generosa ospitalità del Gino e della Pim, la sua compagna,
per ritrovare l'essenza di un rapporto con le cose dell'arte la cui disponibilità
nella Milano di quegli anni risultava preziosa e rara.
Le poche e semplici regole del conquistare i piani e
le superfici con gli strumenti del falegname, del modellatore e del gessino
istitutivano, come è logico in una forma elementare di apprendimento, l'atto
fondativo di questa iniziazione alla forma scultorea. Mentre il discorso
intorno al tema della rappresentazione escludeva il ricorso a concetti o
pensieri distanti dalla materia e doveva ricondursi alla semplice e diretta
capacità di sentire pieni e vuoti con le mani. Il toccare e il sentire
toccando, anche chiudendo gli occhi spianava il terreno della conoscenza, che
attraverso la materia la
trascendeva. Non diversamente
nell'esperienza del cantiere, avrei avuto la fortuna in anni successivi di
riconoscere l'affinità con il lavoro
dello scultore nel fare e nel disfare di
un abile maestro murario con il quale avevo avuto il privilegio di dialogare.
Caro
Gino, nel giorno del tuo funerale in una splendida giornata di sole, che tutto
e tutti abbagliava, le pietre e i graniti delle tombe nel piccolo cimitero,
troppo lucide, squadrate e levigate da star male, avrebbero voluto mostrarti
la riconoscenza e rispetto per l'amore
con il quale hai sempre trattato le loro sorelle pietre e i loro cugini alberi.
Mario
Fosso
* * * * * * * *
Il lascito culturale di Cosentino
Ringraziamenti
a nome della Fondazione per la Facoltà e il Dipartimento, per gli intervenuti e
per il pubblico
Questo
incontro, nelle nostre intenzioni non deve essere né una commemorazione, né una
celebrazione.Lo scopo che ci siamo proposti, riunendo qui significative
testimonianze, è l’apertura di un dibattito culturale sulla figura e l’arte di
Gino Cosentino, affinché non vada disperso e distrutto il ricco patrimonio di
opere che ancora popolano il suo studio, e affinché sul suo lavoro non cadano
il silenzio e l’oblio. Non voglio dilungarmi sulle caratteristiche della sua
opera di cui ho già scritto in varie occasioni: mi limito qui a ribadire la
forza suggestiva e la qualità sintetica, in grado – sempre – di riunire le
ragioni cogenti della forma e la semplicità evocativa del messaggio, senza
rinunciare alla loro diversità, eppure realizzando un equilibrio spesso
perfetto. Voglio invece enunciare il programma che la Fondazione intende attuare
per diffondere la conoscenza delle opere del Maestro.
Ci
poniamo essenzialmente i seguenti obiettivi:
1. La gestione dello studio, una vera miniera di
straordinarie opere di scultura e pittura e uno specchio emozionante del lavoro
e della vita dell’arista. In quest’ottica si tratta di trovare una soluzione
ottimale per la collocazione dei cospicui depositi che vi si trovano, sia
attraverso la loro collocazione collezionistica, sia attraverso la loro
conservazione ai fini di una conoscenza completa dell’opera di Cosentino.
Nell’immediato pensiamo di poter aprire
al pubblico lo studio uno o due giorni alla settimana, per visite individuali o
di gruppi almeno fino alla fine del 2006.
2.
L’individuazione di una sede definitiva per la Fondazione, con la creazione di
un piccolo museo di una biblioteca di documentazione. La Fondazione è stata
istituita con atto notarile il 14 luglio 2000 ed è stata riconosciuta dalla
Regione Lombardia il 18 aprile 2002, con decreto n. 07177.
Nelle
intenzioni di Cosentino, come anche risulta dallo Statuto, la Fondazione
costituisce uns sorta di garanzia di sopravvivenza per la sua opera.
Oggi
è presieduta – come previsto dalle norme statutarie – dalla figlia Isabella. Il
patrimonio della fondazione è costituito da trenta sculture, che l’artista ha
scelto personalmente e da altrettante opere pittoriche che la figlia ha deciso
di aggiungere alla primitiva costituzione. Negli anni trascorsi – anche per la
stanchezza che ha accompagnato Cosentino negli ultimi tempi – la Fondazione non
ha operato se non nella organizzazione di alcune occasioni espositive. Ora
invece è per noi importante riuscire (anche con il contributo di istituzioni
pubbliche o private) a realizzare un lavoro di raccolta documentaria di tutta
l’attività del Maestro. In questa prospettiva mi sembra importante anche
l’assunzione, oltreché degli articoli, degli scritti, delle pubblicazioni di e
su Cosentino, anche dei gessi e degli schizzi che illustrano il processo
creativo delle sue opere.65
Infine
stiamo lavorando alla progettazione di una esposizione incentrata
principalmente sulle opere patrimonio della Fondazione.
3.
Vogliamo promuovere la rivalutazione conoscitiva degli interventi che Cosentino
ha realizzato in luoghi pubblici o aperti al pubblico. (Edifici pubblici e
privati, chiese, la vicina facoltà di Ingegneria, piazze e parchi, collocazioni
museali). Su questa parte della produzione cosentiniana verterà il nucleo
centrale degli interventi di questo convegno.
4. Vogliamo infine testimoniare l’attività di
insegnamento che Cosentino ha svolto nel suo studio, con esiti estremamente
fecondi che, in alcuni casi, hanno aperto prospettive di originali carriere (ad
esempio Leonardi e Garbuglio). Anche su ciò interverranno qui alcuni
allievi.Ricordo che su questa sua vocazione docente è stata realizzata nel 2003
una mostra a Bergamo presso la Banca Popolare, dal titolo “La scuola di
Cosentino”. Personalmente credo anche che sarebbe opportuno inserire nel
patrimonio della Fondazione almeno un’opera di ciascuno degli allievi, che
spero vorranno cortesemente donare.
Concludo ringraziando nuovamente tutti gli
intervenuti, per la presenza e per l’attenzione.
Giampiero
Gianazza
* * * * * * * *
Gino Cosentino, Sulla scultura, con
una nota di Giorgio Fiorese
Se il pensiero, passando
attraverso le mani, si concretizza in un'opera d'arte, è come se una freccia
indicasse a tutti la strada che conduce verso l'amore.
L'atto di nascita della
scultura, il momento più emotivo per uno scultore, è dato dall'ombra che
scaturisce mettendo un ostacolo contro un fascio di luce.
Se appoggio un pezzo di
creta su un piano illuminato di luce radente, questa creta di colpo diventa
leggibile, oltre che fisicamente, anche dal punto di vista emotivo,
specialmente per chi la volesse modificare con ulteriori interventi.
Comincia così il momento
creativo, che dovrà poi concludersi in un'opera di scultura e cioè in un
susseguirsi di vuoti e pieni in armonia fra di loro. Il problema dell'armonia
comincia subito, appena si fa il primo gesto di aggiungere o di togliere. Il campo
in cui si muove questo problema è vastissimo, al punto che se si vogliono
conficcare nella sabbia dieci lame di ferro con intendimenti d'arte,
immediatamente salta fuori il problema dell'armonia dei vuoti e dei pieni e, se
l'artista non conosce tale problema, le dieci lamelle saranno sempre e soltanto
del ferro e mai una speculazione spirituale.
Questo è il caso limite
perché, se ci chiedono di mettere nella sabbia una sola lama, allora
l'avvenimento è soltanto emotivo e non scatta ancora il vero problema
dell'arte, tutto diventa letteratura, atteggiamento, moda.
È da queste mode che
bisogna rifuggire, perché deleterie e pericolose. Esse ci costringono ad
ignorare e addirittura disperdere la tradizione.
Il punto più importante è
quello di andare verso la materia non con le gambe che tremano, ma con fermezza
e con gli occhi spalancati per ridurla al proprio sentimento.
Per fare ciò occorre una
grande concentrazione che, purtroppo, quando la si ottiene, non resta lì per
delle ore intere, ma sfugge e riappare saltuariamente, anche se le mani, a
volte, seguitano a camminare nella giusta direzione, per abitudine. L'ideale
sarebbe smettere subito tutte le volte che si perde il filo.
La parte tattile della
ricerca dell'armonia è molto importante, perché si sostituisce agli occhi che
non possono arrivare dappertutto. Aiutandosi quindi in tutti i modi, si
stabilisce di volta in volta se bisogna aggiungere o togliere per arrivare a
questo famoso peso oro che è la scultura.
Rodin, per esempio, quando
doveva aggiungere una ciocca di capelli alla sua scultura, prendeva un po' di
creta e la teneva a lungo nelle mani e, guardando attentamente tutto l'insieme
della sua composizione, si accorgeva se la quantità di creta che aveva nella
mano era poca o tanta e, fatta la correzione, la appoggiava nel punto giusto.
Questa creta, quindi, era già scultura prima ancora di essere appoggiata.
Questo per dimostrare qual è la vera essenza della scultura, della quale non si
può fare a meno se non compromettendo tutto e declassando tutto a pura
esercitazione senza contenuto.
gc
0.
Questo testo mi fu
consegnato da Gino 27 anni fa, per una pubblicazione su un giornale “di zona”
(ovvero di una delle 20 parti in cui allora Milano era suddivisa
amministrativamente); era la zona che comprendeva via Watt e l’articolo mirava
appunto a sollecitare la visita di alcuni “monumenti” di questa periferia,
allora (e ancora oggi?) giudicata sfigata. Uno di questi “monumenti” era,
appunto, lo studio Cosentino, lì ritratto da una bella panoramica di Aldo Ballo,
che lo raffigurava colmo di opere ma – rispetto alla situazione attuale –
pressoché vuoto.
Peroro il mantenimento
dell’insieme di questa collezione, magari (velleitariamente?) nello stesso
spazio; a questo fine, mi faccio aiutare dal pensiero di un grande storico come
Henri Focillon.
1.
Afferma Focillon:
“L’idea dell’artista è
forma, e la sua vita affettiva assume la medesima piega. Tenerezza, nostalgia,
desiderio, collera sono in lui, insieme con tanti altri slanci, più fluidi, più
segreti, talora con più ricchezza, più colore e più sottigliezza che negli
altri uomini, ma non necessariamente. Egli è immerso in tutta la vita e se ne
abbevera. È umano, non professionale… il suo privilegio è d’immaginare, di
ricordarsi, di pensare e di sentire per forme. Bisogna concedere a questo
concetto tutta la sua estensione, e nei due sensi: noi non diciamo che la forma
è l’allegoria o il simbolo del sentimento, ma che è la sua attività propria,
ch’essa agisce il sentimento. Diciamo, se si vuole, che l’arte non si accontenta
di rivestire d’una forma la sensibilità, ma che risveglia nella sensibilità la
forma.”
Partendo da questo brano –
in cui riconosco lavoro ed affetti di Gino – è assai divertente notare
l’assonanza espressiva tra i due, l’artista e lo storico che – essendo figlio
di un incisore – ha scritto testi fondamentali su tecniche e manualità, come
quello che ha titolo Elogio della mano.
2.
In un passo chiave di
questo scritto, Focillon afferma che "È la creazione di un universo
concreto, distinto dalla natura, a costituire il dono sommo della specie
umana". È questa possibilità creativa che lo differenzia dagli animali,
che non sono in grado “né di creare un proprio mondo magico, né di creare un
proprio mondo inutile”.
Parafrasandolo, possiamo
dire che il dono sommo che Cosentino ci consegna è l’insieme delle sue opere
disposte nel suo studio; non si può immaginare un universo più concreto di
quello composto dalle creazioni che dimorano nel capannone di via Watt.
È il proprio pensiero e il
proprio essere che lui ha concretizzato attraverso le mani, in innumerevoli
forme (plastiche e/o di superficie) che mostrano una "presa di possesso
del mondo" operata con una straordinaria tattilità [Ancora Focillon:
"La presa di possesso del mondo esige una sorta di fiuto tattile... Se il
tatto non esistesse, la natura apparirebbe simile ai deliziosi paesaggi della
camera oscura, lievi, piatti e chimerici"].
Ci sono frasi, poi, che
rivelano un’ancora maggiore sintonia.
Se Cosentino afferma che
“la parte tattile della ricerca dell'armonia è molto importante perché si
sostituisce agli occhi”, Focillon risponde che “lo spazio non si misura con lo
sguardo, ma con la mano e il passo”.
Se Cosentino dice che il
pensiero “ passando attraverso le mani, si concretizza in un'opera d'arte”;
Focillon nega l’alternativa proposta da Faust, ovvero “se all’inizio vi fosse
il Verbo o se vi fosse l’Azione”, perché “Azione e Verbo, mani e voce, sono
inizialmente uniti a pari titolo”. Pensiero e mani uniti nella creazione.
3.
Forse, da qualche parte, in
Italia o altrove, esiste qualche altro luogo in cui le forme (e i pensieri
concretizzati) di un artista creatore sono presenti con altrettanta completezza
ed evidenza, magari da riuscire – come in via Watt – a restituire, con pari
estensione, l'intera vita di un artista.
Ad esempio, mesi fa leggevo
dell'intenzione di riallestire – a Londra, credo – lo studio di Francis Bacon,
un altro grande; grazie al recupero di numerose fotografie scattate nello
studio originario, si punta a ricostruire, a ricomporre il caos creativo, la
frammentarietà, le occasioni suscitatrici di idee e quindi di opere.
Però quello studio,
ancorché rifatto adeguatamente, non potrebbe ricreare l'universo messo in opera
da Bacon; volendo ricreare questo universo, dovremmo ricorrere –con
l’intelletto e l’immaginazione – alle poche opere che abbiamo visto e alle
tante riproduzioni; il nostro “fiuto tattile” potrebbe continuare a dormire.
In via Watt no, l'universo
si presenta immediatamente in tutte le sue quasi infinite variazioni, è tutta
la vita di Gino (artistica e non) concretizzata.
Un aneddoto. L'anno scorso,
un gruppo di noi – mirando a farne conoscere le opere e, nel caso, a farle
acquistare da appassionati – invitò un gruppo di amici che conoscevano poco
Gino e non conoscevano lo studio. Una coppia di questi amici si innamorò di una
scultura, che Gino – in precedenza – aveva dichiarato alienabile: la coppia,
concordato l'acquisto, se ne stava andando con la creatura. Gino, repentino,
cambiò idea e la scultura tornò al suo posto sullo scaffale. Non tollerava la
separazione; non lo aveva convinto l'affido.
Pur essendo consapevole di
sostenere una proposta velleitaria, ripeto che bisogna cercare di mantenere le
opere (o almeno la gran parte di esse) nello spazio di via Watt, perché questo
spazio è molto di più del museo Cosentino.
Infatti, se la tattilità è
uno strepitoso strumento di conoscenza – come sostengono Focillon e Cosentino
–, lo studio e le opere di via Watt assumono un’importanza ancora maggiore,
profondamente pedagogica; è un museo delle nostre potenzialità creative, del
sentimento agito; è un antidoto alla dilagante virtualità del reale,
all’anchilòsi del più importante dei nostri strumenti, la mano.
gf
[Estratti da H. Focillon, Vita delle forme, 1934,
seguito da Elogio della mano, 1943, Einaudi, Torino 1994; da un testo di
Cosentino allegato a G. Fiorese, Cultura produttiva e arte della periferia
storica, in "il Diciassette. Mensile di politica cultura attualità
della zona 17, Milano", a. III, n.1, gen.1979, p. 8]
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Le cose d'arte di Cosentino
Più che della sua persona, vorrei parlare della sua
opera, anche se poi appare subito più difficile del previsto separare
nettamente queste due dimensioni.
Le cose più importanti del mondo, come per esempio
le cose naturali come l’acqua, l’aria, il bosco, il paesaggio, incominciano a
diventare veramente importanti quando si diradano, quando iniziano a mancare;
finché abbondano passano inosservate, sono cose scontate, sono lo sfondo che sostiene
la possibilità di pensare tranquillamente ad altro.
Quando abbondano inoltre, sembrano eterne, quasi
entità incorruttibili metafisiche, ed è proprio questa falsa impressione che
ingigantisce l’opposta sensazione di fragilità quasi struggente che insorge
quando si assiste alla loro contaminazione, alla loro degradazione.
Così il valore di queste cose paradossalmente ci
appare evidente in tutto il suo peso solo per così dire “in negativo”, quando
incomincia a sentirsene la mancanza.
Diciamo subito che l’opera di Cosentino ha a che
fare con questo particolare genere di cose, in qualche modo ne è affine,
certamente condivide con esse quella sorta di essenza primigenia che lui
chiamava “armonia”, una peculiarità propria della natura stessa.
Le sue forme e i suoi colori non sembrano ispirati o
tratti dalla natura, sembrano piuttosto essere essi stessi natura: hanno come
conquistato i loro contorni con naturalezza, seguendo le misteriose linee di
forza dell’istinto dell’artista a confronto con gli stimoli e le resistenze
offerti dalla materia; le sue sculture si sono moltiplicate e differenziate
quasi come specie viventi, come avviene in natura secondo una sorta di
selezione e adattamento creativo di progetti di armonia possibili, già presenti
in forma embrionale nella materia prima, posseggono quella certa qualità per
cui non possiamo restare indifferenti di fronte a una nascita, a un abbraccio,
a un agguato, a una valle in fiore, alle cose della vita e della morte.
Ma il riconoscimento di tale affinità non esaurisce
la comprensione dell’intero carattere della sua opera; infatti se riconosciamo
in essa quasi l’opera diretta della natura, dobbiamo anche riconoscere che si
tratta pur sempre di opera umana, di “natura naturata”, e allora che cosa
significa tutto ciò?
Oggi la sopravvivenza qualitativa di un paesaggio
naturale o anche urbano, al moltiplicarsi dei manufatti della tecnologia umana
è diventata sempre più problematica, talmente ardua che la tendenza prevalente
dell’arte stessa e dell’architettura più consapevole, sembra più orientata a
denunciare che a risolvere questa contaminazione.
In realtà, soprattutto nel nostro Paese, l’arte e
l’architettura sono presenze assolutamente sporadiche, tanto insignificanti che
a prima vista sembrerebbe lecito generalizzare il principio secondo il quale
l’opera artificiale “tout court” contamina il territorio e il paesaggio
degradandoli, ma naturalmente questo non è necessariamente vero oggi, come non
lo è mai stato in passato.
Certo abbiamo davanti agli occhi le periferie senza
fine dello spazio insediativo interstiziale, abbiamo gli impianti di risalita
che hanno trasformato le valli di alta montagna di un tempo in altra cosa, non
parliamo delle coste marittime …
Vedere certi manufatti del passato ci pare quindi
quasi un miracolo, una chiesetta romanica su un prato, le tracce
dell’organizzazione del territorio di un fondo settecentesco, ma per lo più
sentiamo di guardarli come sopravvivenze, come luoghi sopravvissuti perché
dimenticati non perché “ricordati”.
E qui trovo nell’opera di Cosentino un significato
inaspettato: vedo le sue affinità fra le automobili in città, un bassorilievo
negli uffici di una fabbrica, in una decorazione “marcapiano” o su una lesena
di un’abitazione e vedo che non confligge con il resto del paesaggio urbano,
anzi sembra quasi redimerlo, attrarlo in una nuova dimensione armoniosa.
Vedo quest’opera svolgere una sorta di funzione
“contro corrente” e ancora avverto un’affinità con la natura, anzi con la Vita
stessa, anch’essa sembra operare al contrario, secondo un’entropia rovesciata
che conduce verso una maggiore complessità, che innesca un’evoluzione da un
livello di strutturazione inferiore a uno superiore.
Questa curiosa impressione diventa una certezza quasi
folgorante guardando la sua opera nel suo studio.
Il suo studio è un seminterrato piuttosto informe,
le pareti scrostate sono tinteggiate con molta approssimazione, pendono
grovigli di cavi e di tubi di lamiera; si mescolano ai suoi quadri e alla
incredibile schiera delle sue sculture oggetti di scarto di ogni genere, eppure
sembrano cantare anch’essi assieme alle infiorescenze di pietra agli abbracci
alle forme struggenti di gesso di legno, ai graniti picchiettati o levigati
parlanti nel mostrare a nudo tutto ciò che la materia di cui sono fatti può
esprimere.
Tutto questo mi sembra che significhi speranza; si
tratta di una forma di contaminazione specialissima, che in qualche modo è in
grado di rigenerare il mondo; il degrado che ci circonda può quindi essere
contrastato non “fermando il mondo” ma operando veramente con amore,
riproducendo l’armonia della vita e della morte come ha fatto Gino Cosentino.
Alberto
Bonardi
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E adesso?
Gino Cosentino ha avuto, negli anni, molti allievi –
ma non ha mai creato una scuola. Per fortuna, si potrebbe dire. Non c’è, non si
può parlare di una “scuola Cosentino”. Non
nel senso corrente, men che meno in quello accademico. Non ci sono neofiti,
adepti, cloni. Ognuno dei suoi allievi ha saputo mantenere la propria
individualità, più o meno sicura, più o meno originale, più o meno traballante.
Come maestro, Cosentino non ha mai soverchiato nessuno – il rispetto per
l’altro era totale, sincero, scontato. La
sua domanda di rito, quando si andava in studio da lui per imparare a lavorare,
era: “Oggi cosa vuoi fare?”. Libertà. Metteva
a tua disposizione pennelli, colori e pigmenti preziosissimi, blocchi di
pietra, sacchi di scagliola, compressore e scalpelli. Generosità. Era curioso,
entusiasta delle buone idee, solidale nei momenti di sconforto, quando iniziava
ad elencarti tutte le opere che nella sua vita aveva letteralmente distrutto
perché sbagliate, oppure abbandonate e poi riprese a distanza di anni, con
occhi nuovi. Umanità. Un maestro decisamente fuori dagli schemi. Ciò nonostante
(o forse: proprio per questo), il valore dell’insegnamento di Cosentino è fuori
discussione – non catalogabile, non assimilabile, non riconducibile – proprio
come lui. Cercherò di spiegarne l’importanza attraverso quelli che io considero
punti essenziali del suo insegnamento.
Poesia e amore.
Poesia ed amore sono due parole che Cosentino ripeteva
spesso. Poesia ed amore vengono prima di qualsiasi gesto, prima di qualsiasi
idea od intenzionalità creativa. Poesia
ed amore presuppongono oppure necessitano della capacità e disponibilità a
vedere ed ascoltare. Cosentino diceva
che sono gli occhi delle persone che ci rivelano la presenza della poesia e
dell’amore. Ad ogni modo, queste costituiscono la base, la condizione
essenziale per il fare “artistico”. Come dire: non può esserci arte senza la
capacità di amare, senza la capacità di sentire. La pancia prima della testa.
La materia
Ma soprattutto la materia, prima di tutto. La materia
ha le sue leggi. Per imparare a conoscere le leggi della materia, occorre
averne rispetto, accostarvisi con umiltà. Come dire: la materia ci insegna.
Umiltà è un’altra parola chiave. Bisogna esse pronti a
demolire l’universo di idee, suggestioni, pensieri, significati, immagini con
cui ci si accosta ad una tavola di legno, ad un blocco di travertino, ad una
lamina d’argento col desiderio di tirarne fuori qualcosa di nostro – lo
possiamo fare se abbiamo l’umiltà di riconoscere che la materia è più forte di
qualunque idea figurativa. Si parli di metallo, di pietra, di pigmenti
colorati, colori ad olio, legno – di fronte ad ognuno di questi materiali ed alle
loro infinite variazioni siamo ogni volta e di nuovo come sul limite di un
bosco: dobbiamo ritrovare il sentiero. Accogliere
l’imprevedibile che la materia riserva : la fissità delle idee appartiene allo
schematismo ideologico che nulla o poco ha a che fare con la poesia – oppure
alla “maniera”.
La tecnica
O, se si vuole, la padronanza del proprio mestiere e
degli strumenti del proprio mestiere. La
familiarità dei gesti - sapere calibrare il movimento del polso quando si
picchia sullo scalpello (mai tenerlo rigido), sapere maneggiare un flessibile,
conoscere la reazione dei pigmenti diluiti nell’alcool quando si versano sul
colore ad olio, sapere dosare correttamente la scagliola nell’acqua e
soprattutto amalgamarla bene, sapere quando si arriva ad avere l’impasto
giusto, quello che ci permetterà di avere un gesso non eccessivamente poroso e
friabile – imparare a riconoscere le venature della pietra, quelle che ci
dicono dove andare a picchiare senza correre il rischio di scheggiarla o
spaccarla, e poi tutti i tipi di pietra (travertino nero, rosa del portogallo,
marmo di carrara, etc. etc.). Riconoscere e potenziare l’intelligenza delle
mani, lo strumento in assoluto più importante. Le mani che devono essere in
grado di sentire e padroneggiare gli strumenti, ma soprattutto la materia. Imparare a vedere con le mani prima ancora che
con gli occhi, diceva sempre Cosentino.
La circolarità delle idee
Quando di fronte ad un’opera ci si ritrova in una
strada senza uscita, occorre abbandonare - prendere fisicamente le distanze,
dedicarsi ad altro. Iniziare a lavorare su un altro progetto, liberare la mente
andando incontro ad un altro materiale, utilizzando altri e nuovi strumenti.
C’è un filo rosso che unisce pittura scultura oreficeria nel lavoro di Cosentino
ed è l’idea della strutturazione dello spazio attraverso la modellazione della
materia nei termini in cui si è detto. Continuità e contiguità fisica di
tecniche diverse (basti pensare all’organizzazione del suo studio) consentono
una riflessione in realtà continua sulle stesse questioni. Non c’è rottura, non
c’è contraddizione – la sensibilità visiva e sensoriale sviluppata nello
scolpire la pietra, ritorna nella pittura in modo chiaramente diverso ma
altrettanto evidente – viceversa se ragioniamo sulla composizione, per esempio.
In questo modo si allena la testa ad una flessibilità che evita la trappola
degli schematismi e comunque di tutti gli ismi possibili, si lascia aperta la
porta per nuove associazioni, nuove intuizioni. La curiosità è un ingrediente
che non deve mai mancare.
Il lavoro
E la disciplina, il rigore. Duro e faticoso, il
lavoro. Ci vogliono volontà, determinazione. Concetti, nel pensiero comune,
difficilmente associabili al fare “artistico”. Ostico, per quelli che ancora pensano al valore
del “gesto” in sè. Cosentino era un grande lavoratore - instancabile. Ha scolpito la pietra fino all’ultimo. Non parliamo poi della pittura. Ripeteva
sempre che solo gli imbecilli si mettevano a lavorare pensando di produrre
capolavori e ancora conservava e mostrava, divertito dalla loro “goffaggine”,
le sue primissime opere, sepolte dalla mole di lavoro degli anni a seguire -
diceva che prima di fare una mostra bisogna avere alle spalle almeno cento
pezzi, che il talento e la genialità non sono nulla senza lo studio, la
tecnica, il lavoro. La distanza (fisica
ed emotiva) rispetto a ciò che si produce è un elemento essenziale. Imparare a
guardare il proprio lavoro alla giusta distanza, questo diceva Cosentino:
seduto su una panca, accanto ad una stufa, nel suo studio – mangiando un
mandarino.
Maria
Cristina Codecasa Conti
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Cosentino
“… Siamo ancora lontani, ai giorni nostri, da quella
“sintesi delle arti maggiori” auspicata da Le Corbusier, e forse passeranno
ancora parecchi lustri prima che ci si possa arrivare; ma tuttavia qualche
tentativo sta diventando attuale in tutti i paesi, dopo la lunga quarantena
imposta a pittura e scultura dalla loro sorella maggiore, oggi finalmente si
ripresentano timidi tentativi di inserire la plastica nella architettura, e ho
detto “inserire” e non “applicare”. Che la decorazione sovrapposta, appiccicata
in un secondo tempo all’edificio, sia sempre deleteria, è cosa ovvia; che
invece l’elemento plastico concresciuto con l’architettura, sposato strutturalmente ad essa possa e
debba diventare un fatto auspicabile, è evidente.
Ecco,
si osservino alcuni dei molti esempi, spesso ottimi, di cui è stato artefice
Cosentino. A Milano e a Bergamo egli ha
saputo eseguire una serie di “sculture per l’architettura” di massimo rilievo.
Si tratta di tre tipi diversi, ma analoghi, di opere:
1.
bande sottili, quasi greche e festoni, poste a scandire la sequenza dei piani,
inserite (già al momento della lavorazione e quindi previste nella
progettazione dell’edificio) nel margine esterno delle solette che permettono
così di sottolineare la divisione tra un piano e l’altro e creano un elemento
ritmico oltre che ornamentale di primo ordine;
2.
pilastri portanti posti all’ingresso dell’edificio scolpiti sin dalla fase di
lavorazione (il bassorilievo formato in creta è stato poi passato al negativo
in gesso così da poter essere messo in opera in calcestruzzo già entro il
cassero). Questi elementi sono altrettanto efficenti dal punto di vista statico
dei consueti pilastri “nudi”, ma presentano in più un aspetto dinamico, dovuto
alla modulazione plastica degli stessi, per cui l’attenzione rivolta su di essi
proprio per il loro aspetto “diverso dal solito” risulta determinante,
nell’attribuire al pilastro un rilievo oltre che artistico strutturale (di
elemento portante) che altrimenti non avrebbe. E basterebbe (sia detto per
inciso) questo fatto a renderli giustificabili anche agli occhi di coloro – e
sono ancora molti – che vogliono a tutti i costi vedere coincidere forma e
funzione, e considerano pernicioso ogni elemento “decorativo” introdotto nella
architettura.
3. Il terzo tipo di opere è costituito da ampie bande
o fasce di bassorilievi (sempre in cemento, sempre concresciuti con le lastre
di calcestruzzo già prima della loro messa in opera e talvolta scolpiti
direttamente nel gesso del cassero) ma, indubbiamente. più “ornamentali” meno
strutturali e funzionali, dunque così da costituire un elemento esclusivamente
artistico che accompagna e arricchisce l’ingresso degli edifici o che movimenta
le pareti di gallerie d’accesso, senza tuttavia entrare in gioco nella
determinazione di un aspetto strutturale o statico della costruzione stessa.”
Gillo Dorfles
[G. Dorfles, prefazione al catalogo della
personale: Cosentino, Rotonda
di via Besana, Milano, 1975]
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Il dialogo con
Cosentino
Giovane architetto, ho avuto modo di conoscere Gino
grazie ad un architetto, Bruno Morassutti, sul finire degli anni ’80.
La
frequentazione e l’amicizia sono nate sulla base di un terreno comune; lo
spazio.
La tridimensionalità, che Cosentino plasmava
naturalmente con le proprie mani, è alla base del nostro fare e lo scultore
vede spesso più liberamente e più lontano.
Vorrei
qui ricordare due episodi che raccontano la continuità e la particolarità del
rapporto tra Gino e gli architetti.
Nel 1985 Afra e Tobia Scarpa disegnano lo showroom
Unifor in Corso Matteotti a Milano.
Un piccolo spazio, molto articolato e ricco di
dettagli, in cui le sculture di Cosentino sono chiamate a dialogare con il
disegno generale.
I pezzi vengono collocati su basamenti disegnati
appositamente: alcuni di questi si possono ancora vedere nello spazio di via
Watt.
In quell’occasione Mario Carrieri ebbe modo di
fotografare splendidamente alcune sculture: il risultato fu un cofanetto di
stampe d’autore di cui alcuni scatti sono riprodotti in mostra.
Nel 2001, mi viene chiesto di ripensare questo spazio.
L’intervento si basa su una ridefinizione cromatica
generale e sull’inserimento di una grande struttura espositiva.
Mi è sembrato naturale, anche in questa occasione,
chiedere a Gino un intervento.
La risposta è stata, come sempre, pronta ed
entusiasta. Insieme abbiamo scelto i pezzi e disegnato i basamenti.
Il risultato, anche in questa occasione, è stato
immortalato da Mario Carrieri.
Il dialogo con il Maestro si presenta stimolante anche
su temi delicati ed inconsueti.
Nel 2001 mi viene chiesto di occuparmi di un monumento
funebre da realizzarsi nel cimitero di Lambrate a Milano.
L’emblematicità del tema architettonico offre un nuovo
spunto di collaborazione.
Dall’incontro con un pezzo nello studio di via Watt
nasce il progetto.
Una base in pietra lavica siciliana è il piano su cui
si erge una costruzione trilitica in marmo di candoglia.
Le origini siciliane della famiglia e la vita
sviluppatasi nella nostra città costruiscono gli elementi di un riparo
elementare in cui la crocifissione di Cosentino trova uno spazio espressivo e
simbolico.
Il volto trascendente del Cristo e la dissolvenza
della figura umana, che si assottiglia in un tronco teso verso il cielo,
offrono il conforto della Fede a chi visita il monumento.
Alessandro
Colombo
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Lo studio del maestro Gino Cosentino
Lo studio si trova in via Watt, 5 a Milano, in uno dei
capannoni industriali, sorti alle spalle del Naviglio Grande.
Cosentino vi incominciò a lavorare nei primi anni 70.
Passati attraverso il piccolo portone d’ingresso ed il
vestibolo, l’interno appare così inaspettato da richiamare alla mente certe
architetture di Utzon in cui il rigore severo dell’esterno racchiude sovente una
morbida e inattesa molteplicità di forme.
La semplice tipologia del capannone tradizionale è
trasfigurata dalla crescita “spontanea” delle opere che a poco a poco negli
anni ha invaso e ricoperto il locale ridisegnandolo.
Eppure niente è lasciato al caso.
Cosentino ha sapientemente organizzato lo spazio in
base alle necessità del suo lavoro.
Tutto si articola lungo un asse che attraversa
idealmente lo studio a collegare i due poli principali della sua arte: scultura
e pittura.
Da una parte lo spazio della pittura è definito dal
grande tavolo di legno bianco con l’immancabile vaso di fiori al centro.
Dall’altro lo spazio della scultura viene rilevato dai
forti basamenti di ferro e dal grande compressore. Il luogo tramite un grande
portone di servizio è in diretta comunicazione con l’esterno.
Una piccola tettoia copre lo spazio aperto della
scultura, qui Cosentino sbozza e lavora le pietre più grani.
Lungo questo percorso tra pittura e scultura si
trovano gli altri avvenimenti dell’arte di Cosentino: sono i luoghi delle
terrecotte, dei vetri e dell’arte preziosa od oreficeria.
In ogni diverso spazio vengono individuati
fisicamente, con un tavolo, una lampada o un semplice attrezzo i vari momenti
dell’atto creativo; dalla preparazione al suo compiersi, fino alla sua
contemplazione.
Ogni cosa è progettata, disegnata dall’artista come
estensione della sua arte: i tavoli di legno per le grandi sculture, sapiente
equilibrio di pieni e di vuoti, le basi su cui le opere ruotano per offrire
facce diverse alla luce ed ancora le lampade dalle varie forme e dimensioni.
La mancanza quasi totale nell’ambiente di luce
naturale e diffusa è la seconda grande sorpresa di Cosentino.
Come nella tradizione delle silenti chiese nordiche
l’illuminazione del vasto spazio è lasciata a tante piccole luci puntuali.
Lampade dal disegno semplice e funzionale, uscite
dalle mani di Cosentino, illuminano e colpiscono le opere secondo i desideri
del maestro e seguono il suo atto creativo.
Luce ed ombre invadono lo studio, le opere ora
svaniscono appiattite sui muri bui ora, illuminate, prendono possesso
dell’architettura del luogo che sagomano e modificano come una più grande
scultura.
Esiste un posto in tutto lo studio, nascosto agli
occhi del visitatore, da cui è possibile cogliere in un'unica immagine lo
spazio.
E’ il “pensatoio” di Cosentino, costruito dall’artista
alto sulle opere, ma ciò che si vede da lì appartiene solo a lui.
Paola Garbuglio
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Appunti su Gino Cosentino
La mia conoscenza con Gino risale agli anni ’55 o ’56.
Gino occupava allora un piccolo locale-studio al piano
terreno di via Ausonio quasi di fronte alla copisteria dei fratelli Marri, ben
nota agli architetti di allora.
Conservo netto il ricordo di quello spazio quasi
riempito delle sue “pecore”: stavano sui banchi, sul pavimento. Raggruppamenti
di pecore affettuosamente vicine una all’altra, mai sole. Era il soggetto che più lo attraeva allora e
sul quale aveva molto lavorato. Mentre me le mostrava le accarezzava con le sue
forti mani.
Erano certo state l’origine delle sue seguenti
“affinità”, come lui amava definire la sua scultura astratta del periodo
successivo alle pecore, caratterizzata spesso da due elementi affini
scomponibili riuniti armonicamente a formare un’unità.
Poco dopo quel primo incontro, nel ’57, Mangiarotti ed
io, allora associati, progettavamo la chiesa di Baranzate (la “chiesa di vetro”
come la chiamarono) all’interno di un recinto sacro protetto da un alto muro di
calcestruzzo e grossi ciotoli di fiume “a vista”. Non avemmo alcun dubbio nel
convincere lo “sponsor” ad affidare a Cosentino le sculture della “Via Crucis”
infisse all’interno del muro a ritmare il percorso che circonda il sacello
dalle superfici vetrate. Possenti
altorilievi in serpentino che Gino creava di getto nella pietra. Nati e pensati
assieme al muro a cui erano legati. Accentuazione dell’esplicito richiamo ai
recinti cimiteriali del passato ancor oggi visibili nelle chiese di montagna.
Qualche anno dopo, nel ’62, in via Gavirate a San
Siro, lungo il marciapiede che fiancheggia un’altra nostra opera (la casa a tre
cilindri), invitavamo Cosentino a cimentarsi di nuovo con un muro di cinta.
E questa volta Gino trasforma l’intero muro in una
lunga scultura: un “murale” di largo respiro al quale lavora per giorni a
bassorilievo con il martello pneumatico alternando scabrosità a superfici del
getto.
Un’opera forse irrecuperabile, deturpata oggi e resa
illeggibile da sovrapposti… “murales” colorati.
Questi due ricordi sui quali mi sono soffermato, per
stare nel tema “scultura e architettura” dell’incontro, sono solo gli apici di
un lungo percorso di frequentazione e di amicizia con Gino, nel suo nuovo affascinante spazio di lavoro di
via Watt dove di tanto in tanto ci trovavamo con altri amici, dove scoprivamo
la sua costante evoluzione, le novità della sua opera, le nuove pitture, il suo
entusiasmo nell’illustrarcele.
Dove infine trascorrevamo ore serene allietate
all’inizio perfino dalle note di un armonium che Gino aveva issato su un
piccolo soppalco accanto all’ingresso e che lui suonava per noi. In seguito ci
allietava talvolta col suo canto sommesso accompagnandosi con la chitarra.
E qui mi fermo perché tanti meglio di me vi diranno di
Gino.
Bruno
Morassutti
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Cosentino
Interrogare la materia, scendere nel buio, accanirsi,
sul sordo blocco di pietra. Chiamarlo al possibile.
Sottrarre con forza, stanare
la forma, portarsi all’incontro di mondo e figura, corpo e grembo, l’uno
dall’altro generati, la forma come la nascita stessa.
Densità. Concentrazione in potenza, greve e leggero cuore
delle cose. Wotruba, Nivola, Martini, ma, prima e di più, Antelami e Nicolò,
necessità di soffio e pietra.
Condurre l’inerte alla fabula, inventare storie, comporre mondi, un bestiario che
comprende l’umano.
Continuità. Contiguità. Una cavità per ospitare lo
spazio e il tempo, la convessità come l’affidarsi all’ignoto.
Il liscio e il ruvido, la tattilità dello sguardo,
carezza di milioni mani, il segno dell’uso, come uno stare - l’essere stati -
di casa nel tempo.
Perdersi nello stupore/pietas per sé e per tutti gli esseri. Mettere in cerchio il qui e ora, e il tempo
fuori dal tempo. Chiamare l’ostile e il sordo nell’ordine dell’amore.
Giancarlo
Consonni
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COSENTINO E GLI ARCHITETTI.
di Giovanni Fragapane
Non
è possibile inquadrare l'opera di Cosentino senza percorrere la sua storia e
collocarlo nel suo tempo.
Fin
dall'inizio, superata la fase di formazione, lo troviamo impegnato all'interno
del problema dell'unitarietà delle arti e in particolare dell'arte
nell'architettura.
Un
giorno alla mia domanda rituale
"cos'è per te l'architettura" diede la risposta canonica:
"l'architettura è la madre di tutte le arti". Ed in questo c'era la coscienza del legame tra
le arti ed in particolare del legame della scultura con l'architettura; fatto
che implica il carattere sociale, pubblico della scultura.
Cosentino
deriva da Arturo Martini, di cui si dichiara allievo, il senso civile della
scultura, la scultura come fatto
pubblico.
Cosentino
non era un isolato, aveva antenne sensibilissime per cogliere il clima, gli
umori e le luci del momento.
Milano
nel dopoguerra si stava trasformando in un uno dei centri più vitali del
dibattito artistico. I suoi artisti erano collegati con Parigi, allora centro
universale dell'arte. A Milano era
tornato dall'Argentina Lucio Fontana
col "Manifesto Blanco" dell'arte spaziale. Era il momento dell'espressionismo astratto,
dell'informale. Il Naviglio, la Galleria
Blu ed una miriade di altre gallerie erano attive nell'esporre e sostenere
gruppi di giovani artisti.
Cosentino
era a Milano per vivere di questi stimoli e partecipare a questo dibattito. E
rimase ad operare a Milano anche quando la famiglia si trasferì ad Intra, sul
Lago Maggiore.
Tra
i vari giovani attivi nel dibattito artistico si muovevano anche architetti tra
i quali il giovane Giandomenico Belotti.
Belotti
era un appassionato dell'opera e del pensiero di Le Corbusier di cui seguiva da
adepto l'evoluzione artistica.
Le
Corbusier, architetto, pittore scultore, urbanista, teorico e divulgatore era
la personalizzazione dell'unitarietà delle arti.
Nella
ricostruzione post-bellica il cemento armato diventa il protagonista indiscusso
per affrontare i problemi quantitativi dell'edilizia. Le Corbusier, che già da
decenni aveva teorizzato l'uso libero delle strutture di cemento armato negli
edifici (maison domino) e che già nel 1935 aveva usato il calcestruzzo a vista
nei pilastri (piloties) della Maison Suisse, adotta questo materiale come
protagonista principale della costruzione dandogli la qualità di mezzo
espressivo nelle architetture del dopoguerra a partire dall'Unitè d'Abitatione
a Marsiglia (1948). E' il "Beton
Brut". E sulle pareti di cemento
plasma rilievi fatti di segni e forme. E'
naturale che anche Belotti adotti questo mezzo espressivo come perfettamente adeguato
al bisogno di verità del processo costruttivo e condivida la tecnica di
modellare con rilievi scultorei le superfici plastiche del calcestruzzo.
Il
felice incontro Belotti - Cosentino permette la nascita, nel primo edificio
effettivamente maturo di Belotti, di quella meraviglia plastica che sono gli
elementi strutturali dell'edificio stesso. Inoltre, nell'atrio d'ingresso dell’edificio,
Valerio Romani Adami realizza una grande pittura. E' il rinascere di un mondo:
l'architettura moderna si ricollega alla grande tradizione del passato. Le arti dialogano una accanto all'altra
all'interno dell'architettura. Cosentino
partecipa con entusiasmo alla realizzazione dell'opera e intravede in questa
ricca collaborazione la riconquista di un ruolo importante per la scultura.
Questo
discorso dell'unitarietà delle arti e della riconquista del ruolo sociale
pubblico delle arti è presente e sentito nel clima culturale di allora e porta
addirittura ad una legge che riserva nei lavori pubblici la quota dell'uno per
mille del costo dell'intervento ad opere d'arte. Non vorrei sbagliarmi, ma credo che la chiesa
di Giovanni Michelucci sull'Auto-strada del Sole nasca all'interno di questo
tipo di obbligo.
Le
sculture di Cosentino si troveranno poi a far parte di edifici di altri
architetti quali quelli di Morassuti, di Farina Morez, di Sergio Invernizzi ed
in una mia piccola casa sul lago Ceresio, ed in una a Corsico in riva al
Naviglio.
Il
Cosentino di questo primo periodo viene inquadrato come artista
"neoromanico", ma in realtà la sua ricerca è più ampia e più varia.
Cosentino
è artista squisitamente moderno. La sua
figurazione zoomorfa e non ( ho presente un suo ritratto di Ja Belotti in
terracotta ) è il risultato di una sapiente stilizzazione delle forme ed esaltazione
dei volumi. Ho visto in quegli anni,
sempre in casa Belotti e in casa
Invernizzi, alcune sue ceramiche assolutamente inconsuete per forme e
colori.
La
scultura di Cosentino rapidamente, partendo da quegli esiti figurativi,
acquista grande respiro, si fa astratta.
La
semplificazione formale e la focalizzazione di temi espressivi importanti lo
portano a realizzare sculture di grande plasticità e contenuto. E' il tema
delle affinità e delle germinazioni come forze universali.
Ma
il clima magico di quel primo decennio del dopoguerra si dissolve rapidamente. Vengono a mancare l'ottimismo e la speranza.
I
discorsi diventano confusi ed incerti.
Dopo la Pop Art nasce il
Neoliberty; avanza il privato. E mentre lo scontro sociale diventa tumultuoso
si approda al Post-moderno al Decostruttivismo ed all'High-tech.
Cosentino,
che è uno sperimentatore, esprime la nuova situazione creando sculture fatte di frammenti del mondo esterno: utilizza forme di fusione industriali,
elementi di legno colorati, parti di ferro; crea i multipli. Della Pop-art
gli interessa la brillantezza dei colori. In questo periodo conosce un giovane pittore
Inglese, Donald Mills, che da una ricerca di arte informale è passato ad
espressioni geometriche con quadri
dominati dal bianco ed in cui dialogano coppie di colori. Il risultato è abbagliante. Cosentino ne è
affascinato e inizia ricerche analoghe. Alcuni di questi suoi quadri hanno adornato
la sede dell'Ordine degli Architetti a Milano.
I
suoi contatti col mondo si sono intanto arricchiti della presenza nello studio
della nuova generazione di architetti. Attraverso di loro gli arrivano gli umori ed i rumori dei dibattiti del
momento. Egli registra con grande sensibilità e sapienza la difficoltà dei
tempi e passa ad una figurazione più vicina al racconto e più interessata ai
temi universali di amore ed armonia. Accanto alla scultura sviluppa sempre più
la pittura, che è la sua arte parallela, con una costante ed assidua ricerca di
tecniche e media per raggiungere luminosità e purezza cromatica. La pittura a volte si è fusa con la scultura
in preziosi quadri dove dal piano dipinto si sviluppano volumi.
Milano,
16 .12 . 2005
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