Uno scultore per l'architettura: l'esperienza
dell'edificio di via Cimarosa 7 a Milano
La prima
mostra milanese di Gino Cosentino alla
Galleria Santa Redegonda nel marzo- aprile del 1946, con il pittore Pippo
Pozzi, ospitava solo tre sculture in gesso e due bassorilievi, con alcuni
disegni. Eppure, a giudicare dall'unica riproduzione d'epoca di un'opera sacra
dal titolo Caduta dalla Croce (1946) decisiva appariva l'impronta dell'ultimo Martini, in una
figurazione plasmata per tocchi veloci, con la consapevolezza del volume e di
una materia corposa, in una sottile ambiguità della forma plastica. Ambiguità
che costringeva allora Beniamino Joppolo a dichiarare una sorta di incertezza di fronte alla esplicita rigidità
delle figure umane. Scriveva, infatti, Joppolo nel testo di presentazione alla
mostra: "Non riusciamo a stabilire fino a qual punto la rigidezza delle
figure scolpite da questo giovane
scultore appartengano alla innocenza e fino a che punto appartengano al
caricaturale, al grottesco. Quelle gambe scheletriche, quelle schiene dritte,
quei volti tesi in una perplessità fissata depongono a favore della seconda
possibilità. I due bastoni della figura curva che aiutano le spalle pericolanti
a sostenersi per non dissolversi nella polvere sono un motivo di carità
cristiana che ci commuove. I bassorilievi bruciano un fatto plastico per
liberarsi in un'atmosfera pittorica entro cui figure e alberi si muovono
romanticamente e sentimentalmente".
Gli
ingredienti della plastica di Cosentino, le costanti del suo approccio alla
scultura apparivano in nuce in quella prima apparizione pubblica: una visione
religiosa dell'uomo e della natura; il referente martiniano nell'ambiguità
delle figure, tra realismo ed espressione trasognata; una predilezione per la
materia come "natura" e infine, una parallela attenzione al bassorilievo
pittorico che rivelava una inclinazione verso la componente architettonica.
Negli anni
Cinquanta la sua produzione è ancora figurativa, spesso ispirata alla scultura
romanica, ai bestiari dei capitelli romanici, in un dialogo costante con
l'antico che non appare mai adesione a
un motivo esteriore o a una moda, ma si traduce in un dialogo di fede con il
creato, in una visione panica del mondo animale. La pietra è la sua materia
privilegiata, come se le "nature", ovvero le figure animali, nascessero
dalla pietra stessa. E' per tale ragione che - prima ancora della successiva
avventura nell'ambito della non figurazione organica, allora particolarmente
diffusa e considerata da Cosentino come uno sviluppo intimo della propria
predilezione per la materia come natura-
l'artista si impegnerà in una significativa collaborazione
architettonica e crederà da quel momento nella scultura per l'architettura come
conseguenza moderna delle più antiche tradizioni. Mi riferisco al primo
episodio a noi noto di collaborazione di Cosentino nell'edificio di Via
Cimarosa 7 a Milano ideato dall'architetto Gian Domenico Belotti (1954-55).
Milano nella primavera -estate del 1954 era stata interessata da episodi sperimentali di "sintesi delle
arti" alla X Triennale di Milano, soprattutto nell'ambito della plastica
parietale: fece scalpore allora una grande parete murale, dal titolo Plastica parietale di Umberto
Milani realizzata per l'ingresso del Palazzo dell'Arte in calcestruzzo e
sabbia, realizzata mediante calchi in
gesso; una concezione di scultura a muro, aderente all'architettura, che fu
subito impiegata dall'architetto Ico Parisi, sempre in quella Triennale, nel
Padiglione Soggiorno ( oggi Biblioteca del Parco), con un bassorilievo in
facciata affidato ancora a Milani.
E se l'architetto
De Carli elogiò in quell'occasione la parete di Milani nella convinzione di una
raggiunta unità nella concezione stessa del "muro", nell'impiego del
calcestruzzo, l'esempio non dovette lasciare indifferente nemmeno l'architetto
Belotti che visitò allora la Triennale. La plastica di Milani, in direzione
informale e segnica, traduceva nella materia la frammentarietà dell'espressionismo astratto trasformando il
muro in una dimensione "autre", secondo la celebre definizione di
Michel Tapié. Dunque Belotti chiamò Cosentino a concepire per il proprio
edificio di via Cimarosa 7 una composizione figurativa costituita da animali,
impiegando la medesima tecnica del bassorilevo in calcestruzzo realizzato con
calchi in gesso, con un'allusione indiretta alla pratica infantile e
mediterranea del calco nella sabbia. L'artista intervenne qui direttamente nei
pilastri portanti dell'ingresso, in una nuova concezione di collaborazione, a
stretto contatto con l'architetto e mediante un intervento previsto
nel corso dell' edificazione dell'architettura, non essendo più chiamato
l'artista a intervenire in uno spazio
già dato né a inventare una forma autonoma slegata dal contesto. Razionalismo
dell'architettura e figurazione
semplice, ingenua, in leggero aggetto sul pilastro liscio di calcestruzzo,
parvero coniugarsi in quell'occasione: qui Cosentino raffigurò sui pilastri
portanti e sulle solette animali di buon auspicio per la casa, amorosi
accoppiamenti, binomi, trinomi, famiglie di animali, come di consueto nella sua
produzione plastica, quindi espresse in libertà i personali motivi che
contemporaneamente realizzava anche in pietra. Senza dubbio l'esperienza della
dimensione architettonica dovette servire allo scultore, che da quel momento,
forse grazie alla mediazione di Belotti, entrò in un circuito di scultura per
l'architettura che avrà, come è noto, molta fortuna, per tutta la vita.
Tra 1954 e 1955, contemporaneamente alla
commissione di Cosentino, Belotti entrò invece
in contatto con i fratelli Pomodoro, che nel 1955 fecero una importante
mostra alla Galleria del Naviglio di Milano: anch'essi, come prima Milani e
Cosentino, operavano mediante l'espediente dei calchi, però in continui passaggi tra positivo e negativo, in
modo da rendere irriconoscibile la matrice originaria. A loro Belotti affidò la
realizzazione di solette e sottobalconi nell'edificio di via Canonica 7 A
(1958), sempre in calcestruzzo e in corso d'opera: un episodio di sintesi delle
arti che servirà da modello per molte architetture milanesi, tra cui anche il
successivo, non distante edificio dell'architetto Ruggero Farina Morez in via
Melzi d'Eril 29 (1965) con interventi analoghi a bassorilievo di Cosentino nelle solette e una scultura
organica nell'atrio. Dopo il 1955
infatti la scultura italiana prenderà, anche grazie agli episodi segnici di
Emilio Scanavino e soprattutto con le sperimentazioni dei fratelli Pomodoro, un
nuovo corso in direzione di un informale segnico, ma anche di una rinnovata
oggettualità. A questi sviluppi Cosentino non aderirà, sviluppando,
coerentemente con le premesse dei primi anni Cinquanta, una non figurazione
organica in cui le coppie di forme e gli elementi complementari saranno
protagonisti di un'affabulazione lirica.
Paolo
Campiglio
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